Ero ferma alla fermata del bus che mi passava davanti e non trovavo mai il coraggio di salirci sopra. Mi era anche passato davanti più di una volta ma non vi ero mai salita.
Era come se la clessidra del tempo si fosse fermata per opera di chi sa chi! Dopo un po’ di tempo mi venne lo stimolo della fame e mortificata e delusa di me stessa tornai a casa. Mangiai ma non di buon appetito nonostante l’aspetto dei maccheroni al sugo decorati con una foglia di basilico fosse davvero invitante.
Poi come di routine mi sedetti in poltrona con il mio peluche di pezza e la televisione accesa. Seguii il telegiornale, diceva un po’ di tutto la maggior parte delle notizie parlava di morti, liti tra politici, il problema dell’immondizia e poi, tra un servizio e l’altro furono intervistate persone che, per un motivo o un altro, erano rimaste paralizzate. Finito il Tg delle 14,30 spensi la tele e cominciai a riflettere su quest’ultimo episodio. Iniziai a fissare nel vuoto. Ero sola nella stanza con la luce accesa e la finestra del salone chiusa, ero sola perché a nessuno della mia famiglia piaceva guardarmi così passiva nei confronti della vita. Solo mia madre ogni tanto si affacciava e gridava il mio nome “Valentinaaaaa!!!!!” quasi volesse svegliarmi dal mio torpore, ma io ogni tanto rimanevo indifferente.
Quel lontano anni luce lunedì – dico così perché
adesso che mi guardo allo specchio mi ritrovo già
cambiata dentro e fuori, e se i miei nonni mi potessero
vedere stenterebbero a riconoscermi – comunque quel
giorno fu diverso, fu come se dentro di me si
fosse acceso qualcosa, una luce, un segno, una
spinta interiore. Fu allora che mi resi conto di
quanto ero fortunata, iniziai a riflettere: perché
pensai che quelle persone dopo quello che era
successo solo con un miracolo avrebbero potuto
riprendere a camminare, io invece avevo un blocco
mentale, psicologico per intenderci meglio, per via
di alcuni traumi vissuti in precedenza e per tutto ciò la
mia mente si rifiutava di continuare il corso e quindi
riprendere il suo ciclo spettava a me e soltanto a me
alzarmi dalla poltrona vestirmi e tornare alla fermata.
E così è stato! Indossai i vestiti più belli che avevo e tornai
alla fermata del bus. Passò l’11 che porta a Fratte e lo presi.
Ero salita. Non avevo una meta precisa e quindi seguii il
percorso dell’autobus fino a quando non arrivò al capolinea
e stette fermo mezz’ora.
Tornata a casa parlai con mia madre che ancora stentava a credere che ero uscita e avevo fatto un giro così lungo. Le dissi che volevo un medico competente che mi aiutasse a uscire dal mio torpore perché avevo paura che potesse tornare di nuovo nella mia testa il mostro del vuoto, della malinconia e della solitudine. Dopo tre giorni di ricerche e organizzazioni partimmo per Careggi di Firenze, dove mi avrebbero ricoverato fin quando il professore in psichiatria e neurologia non avrebbe ritenuto opportuno dimettermi.
Eccomi qua nel mio reparto, la voce gentile di una delle assistenti del professore, mi dice di accomodarmi e di iniziare a disfare il bagaglio siamo in quattro nella stanza, io sono il numero 5 difronte a me una ragazza rimasta incinta che vuole abortire e, due ragazze anoressiche davvero molto simpatiche: un’architetta e una docente in lettere delle scuole superiori. Ora ti racconto come si svolge la giornata: sveglia alle 6, perché mentre noi andiamo a fare colazione dal mitico Vittorio vengono cambiate le lenzuola dagli infermieri e il personale di servizio pulisce le stanze.
Poi c’è il giro visita, tutti gli assistenti si mettono ai lati del letto e il professore, nonché primario del reparto, ai piedi del letto con la cartella clinica in mano dall’alto della sua saggezza ed esperienza dice il da farsi mentre gli assistenti prendono appunti da comunicare in un secondo momento agli infermieri.
Poi c’è l’assalto alla televisione e alle macchinette del caffè fino alle 12,00 che si pranza. Se c’è pasta asciutta (tipo pasta con il pesto, al sugo o con le zucchine) tutto il reparto di degenza femminile esulta con un coro di tifosi allo stadio, se invece c’è la classica pastina brodosa da ospedale vi è il classico silenzio tombale. Un quarto d’ora di riposo che non fa mai male, una sigaretta in compagnia, una chiacchierata, una passeggiata in giardino e poi alle 18,30 tutti di nuovo a mensa per la cena, stavolta però pastina e purè sono d’obbligo, specialmente per me che esco pazza per il purè e ti assicuro che come lo fanno buono al Careggi di Firenze non l’ho mai mangiato.
Ci sono giorni in cui il tempo passa velocemente, altri invece sembra che il tempo non passi mai e allora mi vedi con il volkaman nelle orecchie a passeggiare avanti e indietro per il corridoio del reparto ascoltando le canzoni in inglese di Timbaland che mi ricordano i momenti belli trascorsi con il mio fidanzato, oppure a leggere un libro nella stanza della televisione, o magari a sfogliare un giornale d’alta moda immaginando, con le mie compagne di stanza, di essere una stilista o una modella che sfila in passerella e le risate tra di noi si sentono fino in guardiola tanto da essere riprese più volte dal personale infermieristico di turno.
Mi trattennero due mesi circa perché ero sensibile ad alcuni farmaci e incontrarono difficoltà a trovare la cura adatta al mio organismo. Mentre i medici valutavano la situazione quotidianamente con assiduità, scrupolosità e perseveranza, la mia treccia bionda cresceva sempre di più e io non vedevo l’ora di tornare a casa per potermi affacciare al balcone di casa mia e vedere il mare, ripercorrere le stradine e i vicoli della mia bella e adorata Salerno con il mio Labrador, riabbracciare i miei cari, i miei amici e il mio fidanzato.
Non passò molto tempo che questo mio piccolo grande desiderio si realizzò. Tornata in città tutto mi sembrava più bello, diverso. Era la città ad essere cambiata oppure ero io cambiata, io che sono tornata a essere la persona viva e grintosa di sempre?! Grazie Gesù!
Valentina D’Ambrosio.