“Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima? Poiché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni” (Mt 16,24-27).
Nella società dell’effimero, dove quello che ha peso è l’apparire, sono banditi i grandi interrogativi: “Da dove vengo? Dove vado? Chi sono? Perché vivo?”, e se qualcuno vuole far riflettere su questi misteri rischia di essere messo da parte, come successe a S. Paolo nell’Areopago ateniese (cfr. At 17,32). Per quanto abbiamo realizzato molte conquiste, pare si sia globalizzata anche una visione piuttosto misera della vita, una visione di un’umanità che non sa dove va ed è relegata e prigioniera di questo piccolo globo terracqueo e di un’angusta dimensione spazio-temporale. Molte situazioni attuali sono la punta di un iceberg che segnala il basso livello morale e qualitativo di un’esistenza e di una vita che non solo vengono svincolate da ragioni di eternità, ma non favoriscono neanche l’accoglienza dell’altro e un cammino con una meta comune. Ci si meraviglia, poi, quando la morte, la malattia, gli eventi della vita sbarrano la nostra strada e ci si dispera perché si è smarrita la direzione veritiera dell’esistenza: siamo diretti verso la morte, verso un punto di non ritorno. Questo nostro limite reclama un senso e delle risposte. Purtroppo, si sono persi la dimensione e
il tempo della riflessione, addirittura si è smarrito il carattere
generazionale che contraddistingue la nostra esistenza. Non c’è più l’idea di popolo che cammina, di un “continuum”, sembra piuttosto di avere a che fare con un “biscione” che ha una caterva di scaglie, separate le une dalle altre,che, mano a mano che il tempo passa, cadono e si rinnovano senza avere un punto di riferimento, una meta.
Dunque, un popolo di terrestri che cammina solo in funzione del tempo e dello spazio che ha, decide al momento le cose da farsi, senza una ragione unica del vivere e dell’operare, ma secondo una logica frammentaria. Salvo poi ritrovarsi di fronte all’inevitabile contraddizione tra il finito e il contingente e ad una realtà che continua il suo corso storico e generazionale; per non parlare, poi, della contraddizione che suscita l’idea di infinito che prorompe dentro e fuori con prepotenza.
Allora istintivamente nascono le domande: “Perché? Cosa ci sto guadagnando?”, e scaturisce spontaneo il bisogno di una logica che sottenda le nostre azioni. Perché restano pur vere le affermazioni di Giobbe: “Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò” (Gb 1,21) o di Qoelet: “Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?” (Qo 1,3). In definitiva, una dimensione soprannaturale, non solo è auspicabile e necessaria, ma, addirittura, si presenta con forza al nostro pensiero relativista.
Se il nostro affannarci è per il bene dei fratelli e per il Bene in sé, se diamo una risposta d’amore e di comunione al nostro vivere, ecco che la vita acquista significato, sapore, vitalità e ci ritroviamo armonicamente impegnati a darci una mano, come famiglia di figli del Padre, tutti bisognosi di salvezza, per raggiungere insieme, attraverso la carità operosa, l’Amore senza fine.
Proprio il nostro limite, il nostro essere polvere che ritorna polvere, ci spinge a ritrovare il senso di ogni cosa e l’immagine di Dio in noi, il ricordo dell’Amore celebrato nella creazione. In fondo, l’origine di tutte le filosofie e le teologie, dell’intera ricerca umana, è il desiderio di capire e svelare la nostra origine e di comprendere chi siamo e dove andiamo.
S. Giovanni con chiarezza ci parla dell’origine e della meta della nostra condizione umana quando afferma che saremo simili a Dio e lo vedremo come egli è (cfr. 1Gv 3, 2). Ma ora che siamo nella condizione di uomini, quale immagine possiamo portare dentro di noi se non quella di Cristo, il Dio fatto uomo? Un Dio che si è fatto bambino, adolescente, adulto.
Il Cristo evangelico ci mostra chi è Dio e come si comporta e addita all’uomo la Via. In questa sua Via tutta la prospettiva della nostra esistenza cambia: ogni azione, anche la più insignificante, acquista valore, e non solo non perdiamo noi stessi, ma guadagniamo l’intero mondo a Cristo. E’ questa la reconsacratio mundi, la riconsacrazione del mondo, a cui devono aspirare i christifideles laici, i discepoli di Gesù: riportare ogni cosa a Dio perché la polvere della nostra creaturalità assuma la sua dimensione spirituale. Seminiamo un momento temporale e raccogliamo eternità.
E’ chiaro che coloro che hanno questa speranza purificano se stessi, non si attaccano alle cose passeggere ma relativizzano quelle transeunti, riconducendo tutto all’Assoluto e alla vita eterna.
Padre Giuseppe