Casella di testo: RELAZIONE DEL DOTTOR JANNUZZI
(II PARTE)

 

 

 Una ricerca recente della società italiana di neuropsichiatria infantile dimostra che in età prepubere il 3% dei nostri ragazzi è affetto da depressione. Spesso non cogliamo la depressione, è diventato molto più evidente un disturbo, il disturbo da iperattività.

            L’IPERATTIVITA’

 In giro io sento spessissimo parlare di iperattività: l’aggettivo iperattivo viene utilizzato per tre ordini di ragioni: primo perché non riusciamo a riconoscere la depressione; secondo, perché dire iperattivo sta per vivace e quindi è molto più edulcorato come concetto da trasferire ai genitori; terzo, perché l’industria produce prodotti che servono per trattare l’iperattività, cioè per abbassare la reattività dei nostri bambini che forse in realtà sono depressi. Questo accade in maniera sovente. Nell’adolescenza le percentuali salgono tra il 15 e i 17% perché in tale epoca si innestano altre problematiche, problemi legati verosimilmente anche a cambiamenti fisiologici tipici dell’età e al doversi aprire verso il mondo adulto, quindi quelle ferite psichiche che si erano generate nel corso del primo anno di vita, finiscono con l’essere riattivate, soprattutto quando non si riesce a contenere e ad aiutare questi nostri ragazzi. Ecco che allora 15 ragazzi su 100 sono affetti da depressione. E c’è un’indagine molto interessante che dice che nel prossimo decennio, cioè nel decennio 2010-2020, la depressione sarà il secondo problema di salute infantile nel mondo, le grandi malattie con le quali ci dovremo confrontare saranno le malattie mentali, non dell’adulto, ma purtroppo del bambino. Così anche aumenterà il rischio di suicidi nel bambino: il bambino non ha l’idea della morte, se non dopo il decimo anno di vita, ma questo rischio sta aumentando notevolmente in maniera esponenziale. In America ogni anno muoiono all’incirca si suicidano 2000 adolescenti e questa statistica che ci proviene dall’U.S.A. è una statistica che si avvicina alle nostre, che diventeranno sempre più prossime a quelle statunitensi. Quegli alcolisti, quei tossicodipendenti, buona parte di quei ragazzi, sono dei depressi che noi non siamo riusciti a cogliere, a rilevare e ad aiutare!

 

A CHE COSA E’ DOVUTA LA DEPRESSIONE INFANTILE

La risposta non è univoca: c’è una risposta di tipo genetico, che nasce non dalla scoperta di un gene che codifica per la depressione, perché non ci sono geni che la codificano ma dal maggiore riscontro di una condizione depressiva nell’ambito di famiglie di soggetti depressi. Questo dato va però analizzato nel dettaglio, nel senso che c’è da chiedersi se il maggiore riscontro di una condizione depressiva nell’ambito di famiglie di depressi è legato ad un problema di ordine genetico o è legato a un problema di ordine ambientale? E vi faccio subito un esempio: se io sono un depresso vivo la mia condizione di padre in una maniera diversa dall’essere in una condizione di umore normale: se sono depresso ho poco interesse verso mio figlio, sono poco disponibile a comprendere i suoi problemi, a incrociare i suoi bisogni. E allora il maggiore riscontro di depressione nell’ambito delle famiglie di depressi, è riconducibile a un dato genetico o a un dato sociale, culturale, ad una modalità comportamentale? Sicuramente è vera la seconda. Abbiamo delle evidenze scientifiche rispetto al fatto che tra condizione depressiva e alcuni neurotrasmettitori che sono nel nostro cervello esiste un rapporto abbastanza stretto, nel senso che esistono delle sostanze del nostro cervello, quali la dopamina, la noradrenalina, la serotonina, che sono strettamente dipendenti e strettamente associate ad una condizione depressiva: cioè quando una persona si deprime, il livello di queste sostanze nel nostro cervello si abbassa, e al contrario quando introduciamo un farmaco che determina l’innalzamento di queste sostanze, la condizione depressiva si riduce.

Ma al di là di questo c’è anche un dato di tipo anatomico: se noi abbiamo un depresso maggiore, che rappresenta il grado più alto di depressione, e gli facciamo una risonanza, andiamo spesso ad osservare in alcune regioni di corteccia cerebrale, una riduzione di spessore. Se diamo il farmaco antidepressivo per sei mesi a questa persona lo spessore della corteccia cerebrale ritorna nei limiti della normalità. Quindi la caduta di queste sostanze nel nostro cervello sicuramente si associa ad una condizione depressiva. Sarà molto importante però andare a capire come si riducono queste sostanze. Queste sostanze si riducono perché geneticamente siamo predisposti a produrne di meno o perché il nostro stile di vita ne fa consumare di più, e quindi andiamo incontro alla depressione? La risposta è sicuramente la seconda: queste sostanze si riducono nel nostro cervello quando il nostro stile di vita, la nostra modalità di approccio ai problemi del quotidiano diventa particolarmente complessa ed elaborata da provocare un determinato consumo di queste sostanze. Per dirla in altri termini: io parlo a voi e vi dico esattamente quello che sto pensando. Ma se nel parlare a voi cerco di leggere il vostro sguardo, di guardare Padre Giuseppe, verosimilmente porto avanti un’azione in una maniera molto complessa, molto elaborata. Questa modalità verosimilmente determina un maggiore consumo di queste sostanze e quindi innesca il problema depressivo. Se immaginate quelli che vivono gli impegni della giornata in maniera esagitata, ansiosa, guardando freneticamente l’orologio, oppure quelle persone che praticamente durante il viaggio in automobile ascoltano il radiogiornale, guardano il navigatore, rispondono al telefono, pensano alle cose che debbono fare: questo bombardamento di cose che noi dirottiamo nel nostro cervello determina un maggior consumo di queste sostanze e quindi innesca il problema depressivo. Questo è compatibile con un adulto che deve gestire più cose nella giornata, ma il problema è che questo stile stressante di vita investe anche i bambini!

                                     (dalla sbobinazione Convegno del 25/04/2009).