“Suore non ci abbandonate anche voi , qui abbiamo bisogno di punti di riferimento!”. Queste le parole pronunciate da una signora nel congedarci da una delle ultime famiglie visitate prima delle vacanze natalizie . Abbandono sembra essere una delle parole chiave denotative di uno status quo qui a Scampìa. Una recente ricerca della Caritas ha evidenziato 5 dimensioni della povertà che caratterizzano il quartiere: Economica (mancanza di un lavoro regolare e di un reddito sicuro); urbanistica (assenza di abitazioni adeguate e di spazi urbani comuni); istituzionale (assenza delle istituzioni sul territorio); socio- culturale (bassi livelli di istruzione e dispersione scolastica e relazionale (mancanza di relazioni basate sulla fiducia, solitudine ecc.).
La sensazione che spesso si vive è quella di sentirsi “immobilizzati” “intrappolati”. Si tratta di un’ immobilita’ fisica (il quartiere è mal collegato con il centro), ma soprattutto di un’ “immobilità sociale”: l’impossibilità e l’incapacità di uscire da situazioni in cui ci si sente come in una sorta di “prigione”.
La gente si sente come tradita dalle istituzioni tradizionali. Dopo le tante promesse espresse nelle campagne elettorali e cadute nel vuoto non è facile che la gente dia ancora credibilità alle istituzioni. Qui lo stato si configura come “servizio sociale” o come “giustizia”, una sorta di potere ambivalente che fornisce , o meglio dovrebbe fornire servizi o che punisce. La presenza di forze dell’ordine che continuamente pattugliano il quartiere è costante, ma non sembra garantire protezione e sicurezza perseguendo spesso infrazioni irrisorie, e sorvolando tranquillamente sul narcotraffico che qui assume dimensioni macroscopiche.In che modo i cittadini possono continuare a nutrire fiducia nei confronti di istituzioni che operano soltanto delle messe in scena? Le faide che insanguinano Napoli non sono soltanto frutto dell’ emarginazione delle periferie, ma soprattutto di spire camorristiche che avvolgono ogni ambito del vivere civile trasformando il loro potere da illegale in legale, conservando un atteggiamento ambivalente, di opposizione, ma anche di collusione con le istituzioni.
Lo stato d’animo che ci si trova a vivere è quello della paura, causata da una convivenza forzata con il mondo della malavita organizzata. Molte sono le madri che temono che la prospettiva di facili guadagni, telefonini e motorini offerti ai giovani possano attrarre i propri figli nelle trappole della criminalità.
Si vive un senso di “esposizione al quartiere”, il non sentirsi protetti da nessuno. Ci sarebbero tutti i motivi per andarsene, ma non ci sono le condizioni per farlo. Le relazioni si rinchiudono in micromondi, si perde la speranza di integrarsi con la città. Cresce la distanza tra chi sta dentro e chi sta fuori dal quartiere. (Per molti Scampìa si declina con camorra, droga , criminalità). Chi sta “dentro” vive la sensazione di essere “un problema” e chi sta “fuori” vive spesso l’indifferenza e la mancanza di disponibilità a farsi carico di problemi che non sono solo di un quartiere, ma che coinvolgono l’intera città dal momento che tutti siamo responsabili del bene comune.
Ecco generarsi quella che da alcuni è stata definita la spirale dell’Abbandono, una spirale che va interrotta. Il filosofo Nancy con menzione alle banlieue francesi si è riferito all’abbandono come messa al bando di intere categorie sociali: mettere al bando significa “creare dei banditi”, accrescere risentimento e violenza amplificata dal senso di non appartenenza alla comunità sociale.
Come interrompere questa spirale? Innanzitutto creando condizioni di socialità positiva e valorizzando le presenze positive che qui ci sono possibilmente attraverso la loro integrazione e collaborazione.
La scuola, soprattutto, non è un elemento da sottovalutare, anche se il suo ruolo pedagogico non è dei più semplici dato che non sono pochi i casi di bambini provenienti da famiglie che vivono situazioni pesanti soprattutto dal punto di vista della legalità con genitori spesso assenti perché in carcere e di ragazzi già formati alla “scuola del racket”.
Un’altra presenza fortemente significativa e “radicata” è la Chiesa. Molte parrocchie operano su più livelli compreso quello pedagogico e dell’inserimento nel mondo del lavoro. Molte sono anche le associazioni di volontariato che attuano anche progetti di educativa territoriale e laboratori.
La Chiesa offre qui un “identità positiva”: le parrocchie sembrano essere gli unici spazi capaci di fornire pace sociale e sicurezza. “Unico segno concreto di speranza in una realtà disperata”. Un segno che purtroppo deve far fronte ad innumerevoli difficoltà innanzitutto di ordine organizzativo, dal momento che non sempre vi è cooperazione tra i vari operatori pastorali e con le risorse che la diocesi potrebbe mettere a disposizione. Inoltre spesso le comunità religiose si ritrovano isolate e con forti difficoltà nel ristabilire legami sociali anche al di là del mondo parrocchiale. Il discorso religioso, inoltre, deve fare i conti con altre voci, quelle dei media e dei consumi che costituiscono un ulteriore forza disgregatrice, palliativi ad “un’ansia di identità mai soddisfatta”.
In un contesto frammentato e certamente poco favorevole alla Nuova Evangelizzazione , noi Apostoline operando ad extra, al di fuori delle “mura”strettamente parrocchiali , tentiamo di fare da trait-d’union tra la parrocchia e le famiglie riconducendole alle fonti della Grazia, i sacramenti, e puntando al loro reinserimento nella comunità ecclesiale nella quale poter riscoprire la propria autentica dignità ed identità : quella di figli di Dio, il Dio degli Anawim, dei poveri di spirito, un Dio che non abbandona. A questo siamo chiamate: a mostrare il volto del Dio della Misericordia che risponde alle parole del salmo 22 “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?”, con le parole di Osea “Come potrei dimenticarti?”. Un Dio appassionato ed innamorato di ogni singolo figlio. Siamo chiamate ad essere piccole luci che illuminano le stanze di tanti cuori bui, chiamate a far prendere coscienza dell’immenso tesoro di Grazia contenuto in ciascuno di noi.
Non è facile spezzare questa spirale di abbandono. Noi stesse ci ritroviamo a condividere gli stati d’animo e le condizioni disagiate della gente comune. Non è facile perché le resistenze interne ed esterne al quartiere sono innumerevoli. Si vuole veramente cambiare?
Il cardinal Sepe ha affermato che chi ama Napoli si volge come il buon samaritano sulle sue ferite. “Scampìa è un fortino di
solidarietà…A Scampìa esistono i mattoni più solidi per ricomporre Napoli”. Come la pietra scartata dai
costruttori, potrebbe, se lo si volesse realmente,
diventare testata d’angolo per la rinascita di
una città. Nessuno di noi si senta
esonerato dalla chiamata ad essere
“riparatore di brecce”, (fosse anche
soltanto con la preghiera), anche
quando queste brecce sembrano
non appartenere al nostro piccolo
mondo in cui spesso ci rinchiudiamo.
Sorella Gabriella