Definire i criteri della giustizia non è impresa facile. Il concetto di “giustizia”, infatti, è astratto ed i parametri di valutazione possono variare in base agli ambiti di riferimento: non è detto che una persona giusta secondo la legge, perché paga sempre le tasse, non evade il fisco o non incorre in sanzioni civili o penali, sia altrettanto giusta nella gestione dei rapporti umani o nell’utilizzo delle risorse di cui dispone. Eppure essere giusti è un imperativo iscritto nella coscienza umana, e siamo quindi costretti ad averne percezione sempre, soprattutto quando ci rendiamo conto di non agire secondo giustizia.
Non è mia intenzione, in questo piccolo contributo, indagare su problematiche così complesse; vorrei, piuttosto, fare qualche riflessione sulla giustizia in ambito testamentario, per approfondire un poco la concezione cristiana in merito. Gesù, infatti, va oltre il concetto di diritto, che nell’Antico Testamento sembra essere strettamente connesso a quello di giustizia.
Per gli ebrei osservanti il diritto è l’insieme dei comandamenti e degli obblighi in qualche modo riconducibili alla volontà di Dio, alla Sua parola rivelata. Prima di Mosè si tratta di un insieme di codici e norme ancora piuttosto confuse, anche perché da Abramo a Giacobbe il popolo di Dio deve fare i conti con genti straniere particolarmente invasive, che con i loro dei offrono momenti di confronto pericolosi per un piccolo gruppo etnico che non ha ancora pienamente preso coscienza della sua identità territoriale e religiosa. Eppure Dio interviene, chiama, interpella e giustifica (vale a dire rende giusti) attraverso l’obbedienza alle Sue promesse ed alla Sua parola, che fonda un primitivo diritto di comportamento e di convivenza, soprattutto verso gli altri popoli.
Con Mosé, invece, si definiscono chiaramente sia il diritto che, di conseguenza, la giustizia. Il primo assume la forma della Legge, l’insieme delle norme fondamentali che, a partire dalle Tavole dei Comandamenti, sostanziano il rapporto con Dio, con la comunità, con sé stessi, con tutti i popoli. Seguire queste norme, metterle in pratica con coerenza e fedeltà equivale ad essere giusti, perché esse spianano, guidando chiaramente la volontà, il difficile cammino che ci si presenta dinanzi quando ci chiediamo: “cosa devo fare per essere giusto?”.
Questa rigorosa mentalità accompagna gli Ebrei per tutta la loro storia, e certamente è valida ancora oggi. Ai tempi di Gesù i farisei e gli scribi, i “dottori della Legge”, avevano portato a conseguenze particolarmente odiose il rispetto ossessivo per il diritto. Si era provocata, sostanzialmente, una scollatura molto forte tra giustizia e valori umani nel senso più genuino del termine. Gesù si è dovuto confrontare con questa mentalità indurita nel corso della Sua intera predicazione: da quando gli presentano un’adultera perché sia lapidata, in quanto “secondo la Legge” è giusto che muoia, a quando si scaglia contro i “sepolcri imbiancati” che impongono pesi che non muovono neppure con un dito; da quando un’interpretazione volutamente ambigua della Legge rischia di mettere a repentaglio addirittura gli interessi legittimi dei genitori, a quando, con la parabola del pubblicano, descrive un fariseo che si pavoneggia “perché non è come gli altri uomini”; da quando si sente accusato di “bestemmiare” a quando deve difendersi dai tranelli insidiosi di chi Lo vuole a tutti i costi inquadrare in un contesto di norme vincolanti (è il caso, quest’ultimo, della celebre domanda sul tributo da pagare a Cesare, con la spiazzante risposta “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”).
Gesù, infatti, inaugura, per così dire, una giustizia nuova, svincolata da un diritto inteso solo come osservanza esteriore e strettamente inserita nelle dinamiche nascoste del cuore e delle intenzioni. È la giustizia del Padre che attende il figlio lontano, che ha consumato tutte le sue sostanze dietro i piaceri vani del vizio ed ora è solo come un verme; è la giustizia del datore di lavoro che vuole pagare allo stesso modo chi ha lavorato dal mattino e chi, invece, solo dalle “cinque del pomeriggio”; è la giustizia di chi esclama di avere visto una grande
fede in un pubblicano, in un centurione, in una cananea, tutte categorie urticante per l’osservante e “pio” giudeo fedele esecutore del diritto e della Legge; è la giustizia, infine,
che arriva alla follia di amare fino a versare il sangue per redimere chi ti uccide.
È l’amore crocifisso, la testimonianza più alta della carità di Cristo, come hanno capito bene tanti martiri e testimoni della fede.
Dinanzi a tanta libertà di azione e di movimento dobbiamo sentirci allora sciolti da ogni impegno di osservanza e di fedeltà alla Legge di Dio, come se i Dieci Comandamenti fossero, ad esempio, non validi ancora oggi? Certamente si tratta di una questione che non si poneva in questi termini a Gesù. Egli non ha mai preteso di abolire la Legge, di infrangere un diritto secondo cui Egli stesso viveva. Eppure l’uomo aveva smarrito, e rischia di smarrire tuttora, il senso autentico del rapporto con Dio, che non può e non deve ridursi ad una mera esecuzione di atti o pratiche, ma che deve, al contrario, toccare le corde profonde del cuore e dell’anima, delle “viscere” di cui parla Geremia. È a un tale livello che si scopre che Dio è Amore, è carità, e che è sommamente dannoso allontanarsi da questo centro a motivo di una giustizia tutta esterna e formale, che cade inevitabilmente nella ipocrisia. La libertà di Gesù è quella che ha ben sintetizzato Sant’Agostino quando ha esclamato: “Ama, e fa’ quel che vuoi”.
Senza amore tutto diventa freddo e gravoso, dal lavoro quotidiano all’osservanza dei comandamenti. Senza la luce del cuore, anche lo sfolgorio esteriore diventa tenebra.
Gesù ha aperto un abisso di amore e di luce che sta alla nostra responsabile adesione alla Sua persona interiorizzare, perché non ci salvano le regole da seguire, ma l’amore e la carità con la quale assolviamo ai nostri impegni ed alle piccole, grandi vicissitudini a cui la vita, inevitabilmente, ci richiama ogni momento.
Andrea Narduzzi