Dalla lettera
allo Spirito: la Genesi (parte
terza)
Il
libro della Genesi, come abbiamo
scritto in precedenza, può agevolmente essere diviso in tre parti, che
individuano altrettante sezioni spirituali. Nella prima (capp. 1-3) l’Autore
sacro ci parla delle origini (e proprio questo è il significato della parola
“genesi”) del mondo, dell’uomo e del male; nella seconda (capp. 4-12) si indugia sulle conseguenze immediate del peccato
originale, ricordate e commentate nel bollettino precedente, a cui si rimanda.
Oggi cominciamo a riflettere un poco sulla terza, grandiosa sezione della Genesi, che riguarda i Patriarchi e la
loro storia di dolore e di speranza.
E’ l’ultima sezione del libro, che occupa
anche il maggior numero di capitoli, dal 12° al 50°, l’ultimo. Innanzitutto, chi sono i Patriarchi? Si tratta di persone
con le quali Dio stesso comincia un cammino attraverso la storia dell’uomo,
all’interno di un processo di graduale disvelamento
che raggiunge il suo culmine nell’Incarnazione del Verbo nella Persona di Gesù.
Anzi, è proprio la nascita del Signore nel tempo che illumina il significato
più profondo della storia dei Patriarchi, che Dio chiama senza forzare le
coordinate storiche e culturali all’interno delle quali essi vivono e compiono
le loro scelte. Tanti lettori della Bibbia, di ieri o di oggi,
si scandalizzano quando vengono a conoscenza dell’idolatria di Abramo o della poligamia di Giacobbe: si tratta,
invece, di un elemento che può aiutarci a comprendere che Dio non forza le vie
degli uomini, perché Egli sceglie di manifestarsi e farsi conoscere parlando il
linguaggio dei tempi, come accadrà anche per Gesù, ebreo tra ebrei e
profondamente legato alle usanze e alle tradizioni del suo popolo. Le vie
dell’uomo non possono essere quelle di Dio, tanto ci sovrastano nella loro
imperscrutabilità; ma Dio dimostra la
Sua onnipotenza “rinnegando” in qualche modo Se stesso e
portandosi al livello della creatura, con un processo che, come detto, in
Cristo rischia addirittura di essere percepito come scandaloso, tanto Dio si fa
simile a noi (in tutto fuorché nel peccato, come ci insegna
la Chiesa). I
Patriarchi, allora, vengono interpellati da Dio nella
loro storia, nel loro hic et nunc, nel loro “qui e adesso”, come si dice in latino. A partire da
Abramo, che dei Patriarchi (gli altri sono Isacco, Giacobbe e Mosè, con il
quale già ci troviamo nel secondo libro della Bibbia, l’ Esodo) è in qualche modo il capostipite e al tempo stesso il
personaggio più significativo, tanto da essere considerato ancora oggi il
progenitore di tutte le confessioni monoteistiche, compresa ovviamente quella
islamica, che ne parla con immenso rispetto.
“Cominciando
da Abramo”, ci ricorda il Documento della Pontificia Commissione Biblica Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire
cristiano, “che deve lasciare la sua patria e dal popolo che deve lasciare
l’Egitto e attraversare il deserto e così lungo la storia del popolo d’Israele
e dell’umanità, la graduale rivelazione di Dio e della
sua volontà si trasforma per gli uomini in un “viaggio”. Il significato di
“camminare” trascende un movimento esclusivamente fisico e diventa simbolo di
una vita di conversione che accoglie docilmente la chiamata di Dio, apprende la
volontà di Dio e conforma gradualmente il proprio agire, imitando Dio, a un comportamento di fedeltà, giustizia, misericordia,
amore”.
Abramo fa parte di una comunità
tra le tante che popolavano, all’alba del II millennio
a.C., la regione mesopotamica intorno ad Ur, nell’attuale Iraq. La Bibbia definisce Ur “dei
Caldei”: questo particolare ci fa capire che Abramo e la sua gente, il suo
“clan”, sono politeisti, come tutti i vari gruppi etnici di quel tempo e di
quel contesto socio-culturale. Poi, un giorno, “il
Signore disse ad Abram: ‘Vattene dalla tua terra,
dalla tua parentela e dalla città di tuo padre, verso la terra che io ti
indicherò’” . Alla chiamata segue una promessa: “Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e
possa tu essere una benedizione” (Gen.
12, 1-2). Si tratta di un episodio che rischia di essere sorvolato con
disattenzione; è, invece, una miniera di insegnamenti.
Innanzitutto il Dio che si presenta ad Abramo è
ignoto, tanto che nel v. 7 del medesimo cap. 12 Abramo costruì un altare al
“Signore che gli era apparso”. Dio, cioè, inizia con
Abramo un percorso che vale per tutta l’umanità e comincia a farsi conoscere
come poteva essere conosciuto allora, ricorrendo a categorie usuali presso
popoli politeisti. Egli, all’inizio di un cammino di comunione con la Sua fragile creatura prediletta,
si presenta come un Dio tra tanti ed interpella solo la volontà di Abramo, la sua disponibilità a lasciarsi coinvolgere
totalmente in un progetto grandioso di novità.
Lo fa promettendo una Terra ed una
discendenza: in sostanza, la massima felicità possibile per un clan inserito in
una dinamica patriarcale ed agricolo-pastorale,
in cui contano i figli, le proprietà, i capi di bestiame (si pensi, a tal
proposito, all’inizio del Libro di Giobbe, messo alla prova da Dio prima di
tutto nei beni di ordine materiale che abbiamo richiamato sopra). Abramo,
allora, accetta e si mette in viaggio con poche persone: la moglie Sara, che
non gli ha generato figli perché sterile, la schiava egiziana di Sara, Agar, futura
madre di Ismaele, ed il nipote Lot.
Portano con sé, ovviamente, i loro armenti. Il gruppo di “pellegrini” arriva a Canaan, la
Terra promessa, ma non può insidiarcisi
perché la trova occupata dagli abitanti autoctoni, i Cananei. Trova solo lo
spazio necessario per attendarsi, lui e la sua gente, tra Betel ed Ai, un piccolo fazzoletto di terra dal quale invoca, per la
prima volta, il nome del Signore. Lo spazio è troppo ristretto per gli armenti di Abramo e Lot: così, di fronte
alle prime scaramucce tra mandriani, zio e nipote decidono di separarsi, il
primo restando tra Betel ed Ai ed il secondo scendendo nella valle del
Giordano, dove sorgevano le città maledette di Sodomia e Gomorra.
Ma la promessa
è per Abramo: Dio la rinnova solennemente alla fine del cap
13, nel quale si narra l’insediamento più stabile del clan di Abramo alle
Querce di Mamre, ad Ebron, dove fu costruito il primo altare al Signore,
e nei capitoli seguenti, nei quali comincia a profilarsi all’orizzonte una
discendenza carnale, segno tangibile, per una donna sterile come la legittima
moglie Sara, della verità delle parole e delle promesse di un Dio ancora ignoto
e misterioso. E così,
dopo la polverizzazione del clan di Lot nei futuri
gruppi etnici dei Moabiti e degli Ammoniti (si leggano le drammatiche vicende
narrate nei capp. 18-20), rimane Abramo al cospetto di Dio, e Questi lo
fortifica con il “figlio della promessa”, Isacco, il secondo dei Patriarchi,
sulla cui storia e sul cui ruolo nel cammino della salvezza parleremo nel
prossimo bollettino.
Andrea Narduzzi