II Relazione – Convegno per le famiglie
La crisi morale del paganesimo e l’annuncio del perdono.
Il mio intervento si è aperto con un paio di essenziali precisazioni metodologiche: in primo luogo occorre contestualizzare il messaggio degli antichi perché possa risultare comprensibile anche ai nostri tempi; è necessario, poi, fornire punti di riferimento chiari e stabili, che offrano all’ascoltatore (o al lettore) dei motivi ricorrenti di ordine sia concettuale che logico-espressivo. Poste queste premesse, sono entrato nel merito della trattazione enucleando il primo percorso interpretativo: la classicità, nel momento della sua massima realizzazione sociale e culturale, vale a dire intorno all’ultimo cinquantennio che precede l’avvento dell’era cristiana (l’età di Giulio Cesare, per intenderci), ha elaborato una visione dell’esistenza profondamente antropocentrica, ma ha al tempo stesso intuito la profonda fragilità dell’uomo, soprattutto in una prospettiva morale. Questo significa che l’uomo, da un lato, è esaltato come perno razionale intorno a cui l’universo stesso si riconosce e trae e senso; la massima realizzazione di questo primato è il dominio delle passioni, il loro incanalamento in una dimensione creativa sia a livello individuale che collettivo e politico. D’altro canto, però, l’uomo avverte una frattura dentro di sé, percepisce, nel suo cuore, la presenza di qualcosa di oscuro che gli impedisce di realizzare pienamente la “vocazione” razionale e creatrice che lo vuole artefice del proprio destino, faber fortunae suae. Questo momento di rottura, che segna la nascita del viaggio interiore, alla ricerca delle stanze nascoste del cuore, è emblematicamente sintetizzato dall’opera di Seneca, soprattutto le sue Epistulae morales ad Lucilium. Qui viene teorizzato l’ideale del saggio stoico, perfetta incarnazione della dignità e della potenza umane. Eppure il saggio è uno sconfitto, perché sente e vive lo scacco della ragione di fronte ad un limite interiore che per la classicità rimane la domanda senza risposta del tragico dell’esistenza. Anche S. Paolo grida, nella Lettera ai Romani, il suo struggimento di creatura destinata a non fare quello che vorrebbe, ma a prendere coscienza di avere compiuto proprio quello che non avrebbe voluto.
Ecco allora la novità dirompente del messaggio cristiano ( e con questa osservazione siamo al secondo momento del mio ragionamento): Gesù risponde alla consapevolezza dolorosa delle fratture della volontà e del cuore umano concedendo il balsamo risanatore del perdono, autentico punto di svolta psicologico e, in un secondo momento, anche culturale, del mondo classico e della stessa coscienza dell’uomo europeo, di ogni uomo. Il perdono, infatti, se ben capito e vissuto, sblocca l’ingorgo morale della nostra precarietà: è una parola di liberazione che sana, come lascia chiaramente comprendere l’episodio evangelico del paralitico che viene calato dai suoi parenti dal tetto davanti a Gesù, vista la folla che c’era davanti alla porta di ingresso dell’abitazione. Ebbene, Gesù prima gli perdona i peccati, e poi lo guarisce. Anzi, si può inferire che la guarigione fisica sia una conseguenza del risanamento morale del malato. In questo modo l’umanità, bloccata dall’incapacità di trovare una via d’uscita dal vicolo cieco del limite della volontà e dell’attuazione del desiderio di bene e di buono che ci portiamo tutti dentro, ha trovato nel risanamento del perdono il trampolino di lancio verso nuovi orizzonti. Quali essi siano è l’evoluzione della civiltà occidentale a mostrarcelo: si tratta, in sintesi, di quel processo di cura dell’umanità che conduce l’uomo ad una coscienza sempre più chiara delle sue responsabilità e del suo ruolo di collaboratore con l’opera creatrice e conservativa di Dio. Oggi, fenomeni come la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo e la tutela del pianeta dalle ripercussioni dello sviluppo tecnico scientifico dimostrano chiaramente questo assunto. Ed è sempre il perdono che apre alla consapevolezza di questa verità, perché solo accettando la presenza del limite sanguinante della nostra debolezza e solo permettendo che esso venga sanato dall’intervento di Dio è possibile aprirsi al mistero di sé stessi e degli altri, che certo non annulla i problemi o le difficoltà, ma aiuta a superarli insieme nella direzione di un autentico bene comune. Insomma, il grido di S. Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi non smette di interpellarci e di aprirci alla novità sempre rifiorente dell’esistenza: “lasciatevi riconciliare con Dio!”.
Prof. Andrea Narduzzi