Letteratura all’opera
– La Natura.
Come gli altri temi che abbiamo affrontato finora, anche quello del rapporto con la natura coinvolge profondamente la ricerca di identità da parte dell’uomo. Questo aspetto emerge chiaramente fin dal Libro della Genesi. Dio, infatti, crea ed anima l’uomo solo dopo aver dato forma a tutto il resto (dal firmamento alle piante e agli animali) ed è proprio quando l’uomo si confronta con le altre creature che prende coscienza di non aver trovato “un aiuto che gli fosse simile”. Soltanto di fronte alla donna, tratta dalla sua stessa carne, Adamo sente di trovarsi al cospetto di un’altra creatura animata, capace di corrisponderlo e, per così dire, completarlo perfettamente. Comincia pertanto, fin dalla Genesi, un atteggiamento di confronto e di osservazione con la natura che è una costante della riflessione artistica e letteraria di ogni tempo. I Greci, per bocca di Aristotele, arriveranno a sostenere che l’arte è una attività mimetica (basata, cioè, su un principio di osservazione ed imitazione), fondando in questo modo un millenario canone estetico per le future generazioni di artisti e letterati fino al Romanticismo, quando, come vedremo, l’imitazione imboccherà strade diverse. Purtroppo il tempo ha distrutto le pitture realizzate dagli artisti greci ma, a giudicare dalle sculture pervenuteci e dagli echi letterari di dispute famose come quella tra Apelle e Zeusi, i due pittori più noti dell’antichità classica che si divertivano ad ingannare i visitatori con la perfezione dei loro dipinti, spessi più veri del vero, si desume facilmente che il giudizio estetico era strettamente legato alla vicinanza tra imitazione ed imitato, tra opera artistica e modello naturale di riferimento. I Greci stessi, tuttavia, introducono nel processo di imitazione descritto un principio di idealizzazione che trasfigura l’opera d’arte, e la rende capace di esprimere non soltanto un’immagine, ma anche un’idea. In questo modo, opere come i Bronzi di Riace o, in ambito letterario, le tragedie di Eschilo, non sono solo una perfetta imitazione del corpo umano o delle vicende storico-mitiche, ma anche una idealizzazione delle stesse, che assumono, pertanto, un valore tale da trascendere il contingente per proiettarsi nell’infinito. Chi osserva i Bronzi di Riace non vede soltanto due corpi virili, ma percepisce un’idea di umanità eroica, fiera, sicura, bella e, quindi, buona. L’uomo, quindi, ha imitato la natura, ma l’ha animata al tempo stesso con qualcosa che la trascende e che egli solo porta con sé: questo qualcosa è la coscienza del bello, del vero, del buono, che Platone percepisce fondante per la definizione di uomo in quanto tale, tanto da farne il punto di partenza per la sua speculazione filosofica. Come abbiamo osservato nell’intervento precedente, infatti, è la bellezza la ispiratrice prima del pensiero platonico.
Dopo la Atene classica del V, IV secolo a.C., è la Firenze rinascimentale (siamo tra XV e XVI sec. d.C.) a farsi erede di un’idea di natura strettamente congiunta a quella di imitazione e di bello. Questo assunto vale tanto a livello artistico che letterario. Due esempi soltanto tra i moltissimi che potrebbero essere addotti: gli affreschi di Raffaello e la produzione cavalleresca di Ariosto. In entrambi i casi, ci troviamo di fronte ad opere che vogliono non soltanto essere quanto più possibili reali (e mi viene in mente, a tal proposito, l’esclamazione spontanea di tanti di noi dinanzi ad una Madonna raffaellesca: “com’è bella! Sembra vera!”), ma anche quanto più possibili belle e, pertanto, armoniose, equilibrate, controllate, sulla scorta di una perfezione che la natura suggerisce, ma che solo l’uomo rielabora e sente in tutta la sua struggente tensione all’eterno e al divino.
Accennavamo al fatto che il campo di indagine dell’imitazione muta radicalmente con l’avvento dell’epoca romantica, a cavallo tra diciottesimo e diciannovesimo secolo e dietro
la suggestione di avvenimenti epocali come, ad esempio, la rivoluzione francese e l’esperienza napoleonica. Cambia, infatti, per il verificarsi ed il coincidere di fatti che sarebbe troppo lungo anche voler solo sintetizzare, l’ambito di osservazione della riflessione artistica e letteraria, che imbocca con decisione la strada tortuosa e contraddittoria del cuore umano. In altre parole, la cultura si lascia affascinare non più da uno sguardo esterno, ma da una visione dei fenomeni mediata dall’interiorità.
Con questo non voglio certo sostenere che prima del Romanticismo non ci siano state manifestazioni di una sensibilità più personale, individuale ed intima, tanto nell’arte quanto nella letteratura; questi atteggiamenti, tuttavia, diventano un elemento portante dell’ identità della modernità, come mostrano la diffusione delle teorie di Freud (tutte basate sul rapporto con una dimensione nascosta ed “antinaturalistica” come l’inconscio) o la riflessione artistica di personalità come Paul Klee o Vasilij Kandinskij, che non si basa più sull’imitazione di un evento naturale (un albero, una casa, una donna o un uomo), ma sull’intuizione estetica che lo rende pensabile e, in un secondo tempo, rappresentabile.
E allora, che fine ha fatto la vecchia natura intorno a noi nell’arte e nella letteratura contemporanee? Cosa è rimasto del rapporto con le manifestazioni del creato, momento comunque fondante dell’identità di ogni essere umano? Ci risponde ancora una volta la Genesi: l’uomo non può fare a meno di trascendere la natura, sia quando la osserva e la “completa” ordinandola secondo un gusto estetico che solo lui possiede; sia quando la scava e la domina anche in chiave “romantica” e misteriosa, forzandola ad esprimere paure e angosce. Bastano allora queste semplici osservazioni per mostrare che l’uomo, immerso come creatura tra altre creature, è il depositario di un “mistero” che tutto trascende, fino all’incontro silenzioso con il Dio che ama passeggiare, alla brezza del mattino, tra le meraviglie lussureggianti del giardino dell’Eden.
Prof. Andrea Narduzzi